“Sì, un coltello è essenziale”. Un saggio di Marianne Moore - Pangea

2023-01-05 18:34:48 By : Mr. Edwin Cheng

“Il coltello” è un breve saggio della poetessa statunitense Marianne Moore (1887-1972), scritto nel 1963 e apparso per la prima volta sul numero 123 della rivista “House and Garden” (ora raccolto in “The complete prose of Marianne Moore”, Viking Penguin, 1986). Lo scritto, finora inedito in Italia, è stato menzionato per la prima volta da Cristina Campo nel suo “Gli Imperdonabili”:

“Meticolosa, speciosa, inflessibile come tutti i veri visionari la poetessa Marianne Moore scrive un saggio sui coltelli. […]  Uno solo, comunque, è l’affar suo, la sua lode e il suo salmo: l’ardua e meravigliosa perfezione, questa divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno”.

Il saggio è qui tradotto e proposto nella versione di Marius Ghencea.

Ho un coltello tenuto da due chiodi piatti sull’involucro dell’armadio delle porcellane in cucina. Ha una lama lunga circa 8 pollici, acciaio di alta qualità, unita da un manico in ebano con collare in ottone – il marchio registrato è Encore, Thomas Turner, Cutler a Sua Maestà – comprato a Oxford nel 1911 per tagliare pane e formaggio, da me e mia madre che alloggiavamo in Magpie Lane, ex Grove street, non lontano dalla Bodleian. Su una rampa di scale, sopra la sala di lettura della Biblioteca, tra le teche contenenti oggetti congruenti d’interesse per gli studiosi, c’erano i trencher su uno dei quali recitava il motto:

If thou be young then marry not yet. If thou be olde, then no wife get For young men’s wives will not be taught And olde men’s wives be good for naught.

Penso che questo motto possa aver avuto una parte nella mia antipatia per l’ordine inverso delle parole in versi che pretende d’esser poesia.

Il mio coltello Turner è così affilato da tentarne l’uso per tagliare più che del pane — per sezionare il pompelmo, per affettare un limone, un’anguria: per liberare il favo quale si è cementato quasi permanentemente al telaio. Il risultato: macchie che accusano mani troppo frettolose a strofinare un coltello con il bagliore d’acciaio Bon Ami – indicazione dello stato di casalinga, indiscutibile come i diamanti e i rubini che incrostano le enormi spade d’oro fornite dal re per ogni contentino, invitato al battesimo di sua figlia, la principessa nel racconto di Perrault La bella addormentata.

Una massiccia spada d’oro, come un tagliacarte, tuttavia, è meno pratica del guscio di una tartaruga, dell’avorio, o del coltello da scrivania in acciaio, fabbricato da alcuni produttori tedeschi con testa in Mercurio sull’elsa e la parola Vittoria. Il metallo ovviamente non può competere esteticamente col tagliacarte giapponese in ebano smussato, venduto da Takahashi a San Francisco: o con l’avorio cinese – tipo di tagliacarte che mi regalarono una volta – il manico che diminuisce di diametro a causa di una corta coda d’animale ben arrotondata che sembra tuffarsi nell’avorio da un lato, mentre naso e orecchie passano dall’altro. L’avorio sembra la dentina migliore per la carta indiana, piuttosto che un bordo affilato di fitte rughe che potrebbero virare sul margine o strappare un angolo in diagonale. Sì, un coltello è essenziale. Come osservò l’ammiraglio Roscoe Fletcher Good: “Un uomo di mare senza un coltello non è un marinaio”.

Per i corrispondenti con complessi di sicurezza che sigillano un lembo chiuso all’ultima traccia del bordo gommato, un minuscolo negozio a Venezia ha esattamente la lama: Andrea Ferigo, Coltelleria Arrotinaria, in S. Marco 2358 Calle delle Ostreghe. La cassa dell’osso bianco è lunga da 11 a 16 pollici, fissata da tre rivetti in ottone con un punto rosso vicino alla cerniera. La lama, con scanalatura per il pollice, ha un anello e un apice abbastanza sottile da entrare in un’apertura dalle dimensioni d’una punta di spillo. Con una graffetta attaccata all’anello, questo “bino” (bambino) non deve smarrirsi. Il negozio considera i coltelli da scuoiatura come la loro specialità, ma hanno anche coltelli da frutta e forchette a due punte in acciaio inossidabile, ciascuno con manico in composizione bianca. Usandoli come sostituti di giganteschi strumenti offerti dalle navi e dagli hotel, si può competere con il cameriere che prepara una pesca o una mela dura senza appoggiare un solo dito sulla parte che si mangia. Ne ho comprate un paio; poi mi è stato presentato subito dopo un coltello greco con lama in acciaio da 2 pollici in una presa da 2 pollici e la lama incisa con un fiore a quattro petali su un lato e sull’altro da un pesce che porta via un po’ di lenza. Simmetricamente verrucato dalle teste dei rivetti che stabilizzano la lama, il manico in ottone del coltello ha dei cerchi lavorati a sbalzo che racchiudono tre piccoli gioielli in pasta; quella che sembra essere una pietra di sangue tra due granati. In termini di dimensioni e non di fascino, la mia spada greca è superata, naturalmente, dal coltello da anguria che dominava il racconto di P. Papakoukas nel notiziario di Atene dal “fronte di anguria” di mezza estate in città, che era più o meno come segue:

Ancora una volta ho a che fare con strumenti facilmente maneggevoli… che in questi giorni ho raggiunto un picco di attività. Due venditori di angurie si sono arrabbiati con un cliente che non aveva trovato le fette abbastanza rosse, e li trattava come un’anguria in attesa del coltello. Ogni estate il colore di questo delizioso frutto crea una moltitudine di incomprensioni che culminano nel distretto di polizia. La scena è qualcosa del genere: il venditore di angurie col suo carretto in mano… ed il cliente innocente.

“Se non lo sono non prenderne…” ed il coltello balenò in avanti… “Il fuoco non potrebbe essere più rosso”.

Segue un argomento su chi è daltonico… a volte vengono chiamati esperti: “Mi scusi, signore. Un minuto per favore del suo tempo, quest’anguria è rossa?”. In tre minuti circa si riuniscono venti esperti, gridando ciascuno la propria opinione.

“Sono vent’anni che vendo angurie e so cosa sto dicendo”.

“Mangio angurie da quarant’anni”.

“Giacché l’ho tagliata, devi comprarla”.

“Se non è un cocomero ma un midollo, che cosa ci faccio? Dallo alle galline no?…”

“Anche tu sei un midollo… lo sembri”.

Non c’è bisogno di tutto questo. Lascia che l’ipotesi sul colore sia una questione di tecnica, fortuna e percezione extra-sensoriale. Un ordine della polizia sulla questione potrebbe risolverla una volta per tutte.

Diciamo che chi vive di spada morirà di spada. I Romani, i Fiorentini e gli Etruschi non ne erano convinti. Potrebbe un guerriero superare in forza un Etrusco che impugna uno scudo da 20 chili e una lunga spada, sotto un elmo lungo un metro e mezzo circa dalla cresta alla punta del caudel? Un soldato di Giorgione, in cremisi e spada verticale guardando in avanti come un filosofo o un magistrato, implica l’opposto dello spargimento di sangue. I voti contro Ippocrate quando fu nominato per l’esilio non furono mai sufficienti per esiliarlo, come dimostrano i cocci nel museo di Agora di Atene. Piccoli attrezzi e frammenti trovati dove Fidia aveva la sua bottega ad Olimpia così come il trionfo della chirurgia di Charcot, appartengono alla mitologia dell’abilità in cui l’immaginazione creativa – diciamo l’anima – sminuisce qualsiasi esempio di trionfo in combattimento. Il fatto che l’Hermes di Prassitele dovesse sembrare sorridente da sinistra e riflessivo da destra, confonde l’analisi. Il taglio manuale del marmo sta diventando un’arte perduta; come dimostrato nel David di Michelangelo e nel Mosè che doveva far parte della tomba di Papa Giulio II. Il Mosè – alla destra delle catene che legavano l’apostolo Pietro nella chiesa a lui intitolata, San Pietro in Vincoli – è un’altra prova che gli scultori di Santi sono spesso ostacolati dalla non-santità dei contemporanei. Per la loro cupidigia, i cavatori di Carrara contrastarono il sogno di Michelangelo portando il marmo per la tomba del Papa Giulio II dal Monte Borla. Michelangelo con due servi e dei cavalli, come ci spiega il suo amico Condivi, trascorsi otto mesi alla ricerca della giusta venatura di marmo per il monumento sepolcrale, fu poi costretto – con i marinai genovesi e la loro barca – a spostarsi a sud di Serravezza, da dove il marmo sarebbe stato caricato per il trasporto ad Ostia lungo il Tevere fino a Roma. La tomba non fu mai terminata.

Un uso più rude – diciamo meno euforico – del cesello è offerto dall’architettura: le Cariatidi dell’Eretteo e le loro repliche con le braccia (realizzate prima che le originali venissero danneggiate), accanto al lago di Villa Adriana; il padre Tevere, in rapida erosione, benignamente sorridente in fondo al lago, con Romolo e Remo accoccolati nel suo grembo; l’alligatore in pietra, che giace con una naturalezza senza pari a formare una S appena accennata, sul lago di fronte alle Cariatidi, le sue mascelle dentellate ferocemente spalancate, o forse aperte in un sorriso? La realisticità dell’alligatore ha una controparte nelle dissimili teste di gargolle che sporgono dalla fascia di pietra che sormonta le porte del Palazzo del Re a Sintra – lo stesso cancello dal quale si sporgono una testa di leone che aggrotta le sopracciglia e una che sorride; la soglia avvolta alla base da una fitta felce capelvenere, nonostante i terreni agricoli arsi dal sole. I leoni, simbolo ricorrente sotto molti Re, li incontriamo di nuovo a bocche aperte in fila di cinque o sei, davanti a quello che era il Palazzo di Delos; ma anche nelle fontane leonine italiane e nel leone di San Marco, sulla colonna accanto la banchina che costeggia Piazza San Marco.

Un uso del cesello, apparentemente più funzionale rispetto al ritratto, è quello del lavoro d’intarsio italiano raffigurante fiori, api e farfalle – come nel tavolo degno di nota, presente nelle stanze da disegno del castello di Montegufoni, appartenuto alla famiglia Sitwell; o come negli intarsi severamente geometrici del paravento color oliva, bianco e nero che divide la cappella in memoria dell’arcivescovo Pantaleone, fondatore della chiesa di Ravello. A guardia dal pulpito stanno sei leoni a zampe incrociate, ognuno con una faccia differente; tre maschi e tre femmine.

Lo scalpellino in Italia ha portato alla perfezione l’arte della pavimentazione, come vediamo in quasi tutte le città italiane: un concentrico ventaglio di ciottoli stradali, il cordolo che sporge a semicerchio mortasato a mezza eclissi in quello adiacente; per non parlare dell’utilizzo di pietre da muro, singolarmente sporgenti a intervalli, formando una scala che rinforza il rivestimento murale su per la strada di collina – quasi verticale – che porta a Cortona; e ancora nelle persiane in pietra alte due o tre metri, tutt’ora in uso nella chiesa di Torcello – ogni singolo pezzo di pietra originariamente a protezione contro i pirati. Questa passione per la lavorazione in pietra si può vedere nei mosaici di Ercolano al Museo Nazionale di Napoli: motivi nero su bianco – a muro di Troia – oppure forme ad otto interconnesse, che racchiudono simboli quali la X, l’ascia, la scatola, la croce, il cerchio, l’ovale. Caso a sé stante rappresenta una variante realizzata in Grecia in ciottoli bianchi e neri: la scala eleva il percorso verso la cittadella di Lindo, abbellendo con uno spruzzo di eliotropo, bianco su nero, la soglia di una formale dimora a Santorini.

In Italia la lavorazione della pietra va di pari passo con la costruzione di gallerie rettilinee o talvolta a mezza serpentina; con l’espediente per combattere l’erosione; la freccia di pietra impiantata su un ripido pendio; con il precipizio di una roccia tranciata sulla strada che va da Perugia a Roma dove, burrone dopo burrone, è intersecato da anfratti minori ricoperti di viti come i verticali vigneti di Ravello. La casa e l’uva sono spesso custodite da un cancello in ferro battuto in cima a una scalinata scavata nella roccia. Tali trionfi del lavoro manuale sono tuttavia una miniatura se confrontati con tredici anni di lavoro di 300.000 schiavi nell’innalzare il tempio di Zeus a Olimpia. Anche la manodopera dei migliori tagliapietre si presenta sminuita dallo spirito, come simboleggiato dal tumulo erboso che commemora i morti a Maratona, vicino alla stele del soldato ateniese associato a Fidippide che, troppo entusiasta per deporre scudo, spada e protezioni per le gambe, alterava combattimenti a Maratona – corse le ventisei miglia e mezzo fino ad Atene in un’ora per annunciare mentre cadeva esausto: “abbiamo vinto”.

Nel valore, vi è poco spazio per l’egotismo. Come dice Confucio: “Se c’è un coltello di risentimento nel cuore, la mente non riesce ad agire con precisione”.

Marianne Moore: in sede finale

La mestierante, la virtuosa dello slogan, perché lo slogan è sì rubato dalla bocca, è sì un americanissimo contro canto yankee alla sentenza, ma non è da deridere, debutta senza proverbialità, è retorica, omaggio, ironia che satura tutte le superfici e non trova ostacoli, né interlocutori; l’allenatrice di una squadra, una squadra o un gruppo per ora in costruzione, dove si stringono le prime amicizie, le leggi sono in mano al carisma e come nessuno ancora si sente gratificato, nessuno si costituisce parte lesa; promotrice di arti e sale da ballo, purché sia una specie di pugilato o di concorso, di rampe di scale che portano ad appartamenti provinciali nel mezzo della city, a nidi di rondine abbelliti durante la disfatta, il trascinamento; zoologa dei becchi e degli artigli, delle zampe e dei denti, non per forza manierista del dettaglio, del solubile ritrattino che si scioglie nella composizione, ma del corpo atletico, attualmente ancora in uso, un corpo intero – certo non quello intero da macello, da vivisezione, perché ci vuole fortuna o crudeltà per cadere in quelle reti grandi quanto tutto l’animale, reti fabbricate a dismisura, testate con l’acqua e il riempimento e non con le mosse, per issare anche il ciuffo d’erba rampicante, l’ultimo suolo su cui camminavano uomini e animali, sbarbato assieme all’ombra gigante –; etologa di mestieri, ricercatrice tra questi animali di ingegni e fionde precisissime che sfiorano non selvaggiamente il bersaglio ma lo centrano proporzionale al bisogno, all’altezza; spesso animali cui nessuno può credere (gerboa, basilisco, pangolino), detti quasi per convincere, socraticamente, dell’esistenza di sconosciuti patti tra maestri e allievi; esistenze che si realizzano prima ancora di scegliere il luogo della caccia o dell’approvvigionamento; e viene prima la teoria della pratica, viene una teoria acquattata, prima daltonica poi sempre più colorata, pratica; si affonda nel dettaglio con un ragionamento parlottato da conferenza, una conferenza che vissuta in piedi procura solo frustrazione, nell’abuso, nel consumo di fatti, fonti, dati.

Dove gli entomologhi (o i fabbri, i critici, i conciatori, altri mestieri tutti in uno) in ginocchio raccolgono escrementi e scaglie, lei raccoglie impartizioni, dogmi di animali e vice-animali, ruoli e indicazioni di impugnature, di essiccamenti, di lunghe lavorazioni istantanee, perfette per quel verso lungo e diagonale, suo lavoro esplicativo, quasi mai didascalico si intende ma tollerante dei riferimenti che entrano, necessario confezionare. E se l’animale suo è teoremico, così come l’arma, il ventaglio, la pelliccia, un sistema permette di riprodurlo in vetro, in pietra, di farne chissà quale oggetto da mansarda o da adorazione, ma all’oca resteranno sempre « le zampe da gondoliere », la purezza della strategia, del fondale, dunque un remo e un’autorità temuta da tutti, visto il costume e la drenante mossa che si impara sul fianco destro e su quello sinistro, agitando la superficie e restando scorbutici, in posa: così l’oca, così il veneziano. 

Lei è l’unica che gira in uniforme in mezzo alle bandiere e alle spillette, sulle tavole delle università e dei collegi; e qui le sentinelle, che sono come spiriti ma più piantate e più debitrici, la seguono; ché le sentinelle, i veri custodi, le girano attorno e non si presentano mai, si prestano al favore, alla parola perfetta; l’avvocatessa, l’unica difensora ad accusare e accusatrice che demorde, di parti incontrollabili tra loro, tra vincitori, eroi, atleti, anche due personaggi e due scrittori semmai, senza usare mai i nomi reali, a meno che non si tratti di nomi scientifici (Jubal e Jabal? Bach e Brahms?); due parti, due bellezze e non si contano le differite ma se lei sceglierà, sceglierà sempre il meglio attrezzato, il meglio vestito si intende, quello con lo straccio che tonfa quando cade, non con la maglia che si infila. Tutto quello che sceglie è quello che appare infine, l’unico non omesso; il resto lo castra, lo tiene a mo’ di malocchio appeso alle finestre, dietro a due tendine fiorate, un potpourri di lavaggi, e scaccia la vigliaccheria, il pretesto; non le restano, anzi le abbondano le manualità, i suoi princìpi, lo stile.